14/07/2012
Raccoglievo foglie con l'illusione che mi potessero condurre ai nomi degli alberi e attraverso quei nomi al mondo intero, quasi che la natura e gli uomini fossero tutti lì; non avevo la più pallida idea di come si conservassero, forse la lacca che usava mia nonna anche se mia nonna era morta insieme alla lacca, alle sue fantastiche polpette e all'odore di cera sui pavimenti. Poi perché trattare le foglie? Conservare quello che la natura non vuole conservare ma richiede tutto per sé? Non mi interessava conservarle dopotutto, avevo l'istinto di raccoglierle e basta. Con la delicatezza di chi sta maneggiando un coleottero raro me le mettevo sulle mani, e sorridevo: erano meglio di qualsiasi insetto, perché nelle foglie c'era il nome degli alberi, delle persone, del mondo e soprattutto il loro distacco. Nessuna cosa conosce il distacco meglio di una foglia e nessuno può pretendere nulla da essa. Basta raccoglierle e conservarle lasciandole in una ciotola di vetro tra briciole di terra e fili secchi fino a che non si scheletriscono e si frantumano. Sicché a chi mi chiedeva cosa collezioni, soddisfatto di quello che avrebbe sciorinato lui di lì a poco, io rispondevo nella serenità di chi non compete né può barattare doppioni: colleziono foglie cadute.
8/5/2014
Quando c'erano le rondini fuori al balcone era estate. Mia madre ci
faceva il bagno e ci spazzolava a lungo i capelli umidi con gesti
regolari e monotoni. Nella nostra stanza avevamo un tappeto
marroncino a quadratini e il balcone che dava su un cortile lungo e
rettangolare. Mentre mamma ci pettinava le rondini stridevano e
piroettavano lontane, oltre i vetri, comparendo e sparendo con
traiettorie repentine. A mio fratello mamma metteva un pigiama con un
pantalone striminzito da dove sbucavano i ginocchi tondi e piccoli
come mandarini; io avevo un pantalone corto più largo e la maglietta
lunga che lo copriva quasi tutto. Mentre le rondini continuavano a
saettare dietro ai vetri del balcone, a un certo momento, mamma
posava la spazzola, alzava il mento, e mio fratello correva a
sollevare la maniglia del balcone facendo entrare l'aria tiepida del
tramonto e i garriti che senza i vetri irrompevano nella stanza netti
e striduli. La balaustra della ringhiera era lunga e arrossata dal
sole e punteggiata del riflesso delle ali e delle code nere. Mamma
tendeva il braccio verso le chiome gonfie delle siepi appena fuori il
muro del cortile e ci spiegava che le rondini sono uccelli che si
cibano di insetti. -Lì - diceva mamma - ci sono lucciole e
moscerini-. Mio fratello stava con gli occhi fissi alle siepi,
sussultando a ogni picchiata agile, esclamando che aveva visto
afferrare un insetto, o masticare freneticamente un becco. Io invece
rimanevo assorta su certe rondini più alte, isolate, alcune con code
lunghissime che volteggiavano eleganti e facevano acrobazie,
emettendo versi più melodiosi. - Quelle hanno già mangiato -
spiegava mamma vedendomi così presa. Col tempo ho scoperto che le
rondini corteggiano con il canto e seducono con le acrobazie aeree.
Mamma aveva ragione: l'amore va a braccetto col digiuno, senza alcun
sacrificio. Quelle sere ci mettevamo a letto con l'eco delle rondini
tra le lenzuola e l'ultima carezza di mamma; il cotone fresco del
pigiama rimandava i raggi del sole al tramonto e i miei occhi si
chiudevano con l'immagine delle rondini, quelle che stavano accanto
le siepi, a predare, ma soprattutto quelle che volteggiavano più
alte, lontano dalle siepi, digiune e innamorate.
Sedevi tra gli altri così chiara, così diversa, mentre in basso nel fiume largo e pieno di arbusti sembravano albergare dappertutto pensieri romantici e solitari. Non era vero che eri socievole con gli altri; sedevi e basta e seguivi un istinto fatto di sorrisi e mutismi. Bastava vedere come tagliavi corto sugli argomenti posando di scatto il telefonino sul tavolo e rivolgendosi d'improvviso a un altro interlocutore: "che hai da dire?" o "oggi stai bene, sembri bello". Eri così, maga, estemporanea, come un uccello acquatico che quando è stanco o ha fame, plana nell'acqua senza pensarci due volte. Solo l'amore talvolta ti distraeva da quelle stravaganze; era come se ti assentassi; in quei momenti sembravi normale e avevi appena la forza di sorridere; erano gli stessi momenti in cui puntualmente l'acqua del fiume placava ogni mulinello e si incupiva smarrendo i pesci negli argini, come se le tue labbra d'improvviso gli avessero ordinato un coprifuoco.
25/04/2014
I litigi furiosi, quelli che sembravano anticipare il tempo, quando
il cielo si chiudeva cupo e pioveva, pioveva a dirotto fino a far
tracimare l'argine dei fiumi, inondare i negozi, e riempire d'acqua
ogni cunetta, le cassette delle poste, comprese le falde dei
cappelli, erano interni, tutti nostri e ci sospendevano in un tempo
estraneo agli altri. Dopo ovviamente era come quando torna il sole;
giallo diffuso e le montagne in lontananza nette nei contorni, tanto
che il naso del monte più lontano era sempre preceduto da una serie
di poggi ondulati pieni di macchie di pini, querce, rovi, erba.
Le tue labbra nascondevano un broncio eterno, un temporale, eppure
preferivo il tuo sorriso; lo preferivo come il sole, i dettagli pieni
di luce, il giorno terso, e tutto ciò che nasce dopo la pioggia.
18/04/2014
Il
mare spense tutto. Ogni voglia, ogni rancore. Era immote, silenzioso.
Dentro c'era la vita che doveva ancora essere. Alcuni pescherecci in
lontananza su rotte uguali, così rispettosi di quelle onde assenti,
così perfettamente sulla loro scia, avevano lasciato il faro e
puntavano verso il promontorio, coi bastioni in lontananza, tersi, e
la cresta della montagna che sembrava un naso nell'acqua.
Guardai
un gabbiano, era l'unico a non sapere di me, volava senza alcuno
scopo recondito, seguendo il movimento di ogni fibra interna e
lasciando che il vento gli penetrasse le ali; il resto del paese,
comprese le barriere degli scogli a pelo d'acqua, erano statici,
annoiati da secoli; sono sempre gli annoiati a farsi gli affari degli
altri; la noia può spingere a curiosità morbose, di fronte la noia
i nostri segreti si sgretolano. Tutti erano un po' annoiati e tutti
sapevano, tranne quel gabbiano che mi stava alto sulla testa.
16 marzo 2014
Il tramonto estivo è quello che preferisco, le nuvole sono grigie ma
dietro c'è ancora del rosso, il sole piano piano viene
sbocconcellato dal profilo dei monti. E' dolce, è caldo, certo
finisce qualcosa, ma senza alcuna cupezza. Il nostro amore è così,
un tramonto estivo, che non è chiuso né aperto, sta a mezza strada,
e respira come da una fessura, da una branchia di sole. L'altro
giorno ci pensavo; niente somiglia a noi come l'estate. Gli
ombrelloni dei lidi sempre tesi dal vento, la spiaggia consumata dai
bagnanti, le barche lontane e audaci, i ragazzi sul muretto a bere
birra. Siamo nati in estate, nell'unica stagione dove il tempo
rallenta e i sogni si possono associare a tutto, magari vederli nei
gabbiani sarebbe scontato, ma anche i pezzi di spugna martoriati dalle onde possono andare bene, anzi meglio, sembra che il mare non riesca mai a distruggerli.
30 marzo 2014
La campagna sannita sta a metà strada tra le montagne e il mare e
qualsiasi altra posto fatto di prati e colline. Ha muscoli compressi
in ogni linfa, vite, asparagina, gramigna. Non ha la leziosità delle
colline toscane, né la solarità degli agrumeti o delle bouganville
del litorale, né il verde bruno della foresta umbra, né la brulla
sacralità delle distese pugliesi, né le tinte ocra dei promontori
schiacciati tra Sassari ed Alghero; attorno Benevento ci sono piante
piante basse e arbusti fitti, grovigli, giunchi di fiume, ortiche,
ginestre, viti che l'umido d'inverno riduce a ragni, piante tisiche
di mele, cachi, ciliegi, e soprattutto rovi che hanno ricci, spine e
drupe nere come i capelli delle streghe. Aspetto che esploda con il
tempo caldo ogni pianta, ogni gemma, tutto ciò che ha dimorato
nella nebbia per un anno. Mi circondo le ossa di tutti i fiori
intimiditi dall'inverno, di tutti i pistilli, come fossero promesse
chiuse tra monti e bagnate da due fiumi che coi primi soli già
alitano di vapori, quasi disegnano.
20 marzo 2014
Bisognerebbe sempre cercare una casa con visuale aperta: terrazzi, cortili, balconi, finestre lucernari, qualsiasi cosa, magari anche solo un buco, un interstizio, una breccia, una fessura, l'importante è che si possa guardare fuori. E' importante capire dove nasce il sole e dove tramonta e dove staziona durante le ore del giorno. Il sole c'è sempre anche in una giornata chiusa, di nuvole, o durante un temporale quando il cielo diventa nero come il carbone. Anche quando non si vede, sapere che c'è il sole è come immaginarlo dietro un sipario, è come dire che niente è eterno, che è legittimo sperare. Una casa deve mirare al sole come la freccia al bersaglio. Addirittura una buona esposizione penetra lo stato d'animo e lo allinea al tempo: il sole netto che sembra obbligarti a lanciare sfide, quello velato che sembra diluire i secondi, quello che va e che viene come le decisioni che non vorresti prendere, quello al tramonto che ogni giorno rinnova la parabola precaria dell'esistenza. Una buona casa, per quanto bella sia dentro, resta pur sempre un'eccezione all'aperto.
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