domenica 31 marzo 2013
Auguri mamma
Scrivere di morte è come
liberarsi dagli spettri, scagliarli più in là, a qualche metro, per
osservarli e sentirsi pacificato. Così scrivo di questo andare da
mia madre e di pensarla. Mentre cammino la immagino a casa sua, fuori
il porticato, con le mani nella terra di quel vaso grande a sinistra
del cancello, a mettere le begonie che come ogni anno vogliono dire
estate. Quando si gira la vedo sorridere e dire: - Prendi il
rastrello, aiutami, vedi c'è quella aiuola. - La immagino così,
scaldata dal sole, a qualche metro dall'ulivo abbracciato da un
asparagina bassa e da quattro fili teneri. La immagino coi capelli
bianchi, quelli che non le ho mai visti, e d'un tratto, senza
accorgermene sono davvero da lei, tra i fiori. Non devo più
immaginare, se non vederla, bella, anche sotto quella pietra, che
accarezzo e per la prima volta ho quasi voglia di abbracciare.
sabato 30 marzo 2013
Bosco Verdito
Andiamo da Lorenzo.
Stefano ingoia le curve e io come al solito un po' parlo e un po' penso ai fatti miei. Scavalchiamo Paduli e scendiamo a valle, in un
posto solitario che si chiama Verdito dove tira un vento freddo,
forse l'ultimo dell'inverno. Arriviamo in mezzo a un caseggiato basso
con dei capannoni a sinistra, ci scivoliamo di lato, lungo una
discesa ancora sporca di fango, fino alla cappella di San
Giuseppe. A destra ci sono attaccati dei ruderi silenziosi, una
specie di braccio ingessato dal tempo, e a sinistra c'è una baita
bassa e larga tutta di pietra costruita su dei sassi che sembrano
ippopotami. Lorenzo arriva di soppiatto e ci
saluta orgoglioso del suo piccolo medioevo. Rimarchiamo ogni pietra della cappella di San
Giuseppe e poi ci entriamo. Lorenzo dice che è meglio di notte, ci
sono le luci; a me va bene così, domani è sabato, fuori c'è vento,
e il pomeriggio va a calare illanguidendo ogni sensazione. La
cappella è stata appena sistemata da un restauro, di quelli
rammemoranti, che si fanno in punta di piedi, dalle fondamenta fino
alla campana del 1600. Giriamo intorno al rudere, fino alla stalla,
ci lasciamo a destra un capanno vecchio west con quattro maiali, e ne
approfitto, faccio un filmatino alle bambine, coi musi dei maiali che
si abbaruffano per un ciuffo d'erba che infilo nella rete. Siamo
sull'orlo della valle, sulla parte più alta degli uliveti.
- L'olio buono è una
gara contro il tempo, deve andare al frantoio di corsa, poi le piante
le lascio nell'erba e quando le poto macino tutto e lascio anche quei
resti... - mentre Lorenzo parla penso a quanto sarebbe bello un tocco di campana, ora, nella valle,
ci sentirebbero a Paduli e a Pago Veiano, a San Marco dei Cavoti, a
San Giorgio La Molara, chissà addirittura in Puglia, sul Gargano.
Entriamo nella casa bassa di pietra che è stata costruita addosso a
dei macigni. La mamma di Lorenzo ci offre i biscotti alle mandorle
appena fatti e un caffè. Siamo seduti a un tavolo di legno lungo e
magro, alle nostre spalle c'è un camino con una grande bocca buia.
Nel frattempo guardiamo fuori, oltre il porticato. La grossa siepe di
lauro ha preso uno specie di fungo, una patologia che la sta facendo
arrugginire. Lorenzo e Stefano ne parlano come se fosse una vecchia
zia di famiglia, citano rimedi, terapie, addirittura usciamo e ci
giriamo attorno. Li sento dire di potature drastiche, di trattamenti,
di quanto era rigogliosa fino a qualche tempo prima. Costeggiamo il
campo di favini mentre sotto il capannone due meccanici fanno
manutenzione alla trasmissione della trebbiatrice. Lorenzo farà
ruggire quel mostro d'estate e qualche volta si metterà proprio lui
alla guida, - Oggi faccio io -, dirà all'operaio allontanandolo con
un braccio. Abbiamo ancora poco tempo, giusto quello necessario per
prendere l'olio, di due colori ma della stessa terra, degli stessi
ulivi che si aprono a valle ai lati della cappella di San Giuseppe.
Gli ulivi coi piedi nei ciuffi d'erba. Quelli che guardano il fiume
dall'alto. A questa valle bisogna essere abituati. Come Lorenzo. E
come Lorenzo bisogna avere il gusto di raccontare ogni pietra e ogni
pianta. Senza alcuna fretta e senza dover inventare nulla, stando semplicemente affacciati.
domenica 10 marzo 2013
Benevento
Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia città. Devo fare qualcosa
di piccolo, in un tempo enorme, dilatato. Qualcosa di
semplice in una città frettolosa, difficile, indurita. Devo fare
leva in una breccia, un interstizio, incunearmi con fatica,
stritolarmi, e uscire dall'altra parte, partorito, talmente
estraniato che i primi momenti mi servono per ambientarmi.
Così scendo di casa e
percorro i marciapiedi cenere, giro a destra e sfioro la ringhiera
del palazzo quasi all'incrocio con via Solimene, dove le foglie dei
ciclamini già mandano note dolci. Sul viale Mellusi posso osservare i lecci e le palazzine popolari fino a
"piazza". A sinistra c'è il discobolo di
pietra che sta nascosto dietro il cancello della Mazzini. Mi giro
sempre perché mi ricordo quando ci giocavo dentro le gambe e tra i
polpacci, mentre mia madre insegnava educazione fisica
nella palestra. Poi viale dei Rettori, l'arco, la chiesa di S.Ilario, il ponte Vanvitelli, la piazza dell'Upim vecchio, la stazione, il fiume, la Madonna delle Grazie, il ponte di ferro dei treni,
due pini alti, un casolare basso, un'altro ponte verso Cellarulo, e
ancora il fiume. Ci corro assieme, io a destra e lui a sinistra,
mentre incide prati di zolle, gramigna, scarabocchi di rovi, faggi,
fino al Taburno, dove la punta esile dell'acqua esce dal collo della Dormiente. Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia terra, come scrivere da una crepa e
correre nella mia città, dirle di sì, attraversandola sul dorso, sentendola pulsare sotto i piedi.
sabato 9 marzo 2013
Il primo bigliettino
Chiaretta sa scrivere. Sei anni, che
soddisfazione. Non so se promette bene, ma sa scrivere. Non l'ho
seguita nel lavoro sporco delle lettere tremanti, di quelle prime
linee puntellate e malferme. A quello ci ha pensato la madre. Io
l'ho vista scrivere all'improvviso, senza fasi intermedie, come un
fiore sbucato da un manto di neve. Poi l'altro giorno mi ha
consegnato un pezzetto di carta, il primo bigliettino. Che emozione.
Una frase tutta sua, un pensiero, magari la sua prima metafora. Ho
aperto quel pezzetto di carta con delicatezza, quasi stessi toccando le
ali di una farfalla, e sono rimasto perplesso: "Rarity Pinkie
Pie". Siamo già all'inglese? Non può essere!
- Chiaretta ma che significa?
- Papà sono Little Pony, a me devi
comprare Rarity, e a Valentina Pinkie Pie, te li ho scritti così
quando vai al negozio non sbagli.
- Ah, ho capito – ho risposto deluso
fissando il suo sorrisino soddisfatto.
Cominciamo bene ho pensato, l'approccio
di Chiaretta alla scrittura è stato tra i peggiori, completamente
utilitaristico.
Ma il colpo di grazia è arrivato
qualche giorno dopo. Per puro caso, mentre ero di transito in cucina,
ho ascoltato due battute secche tra lei e la madre mentre erano alle
prese coi compiti.
- Ti piace più l'italiano o la
matematica?
- La matematica, mamma.
Ho fatto finta di non sentire. E ho
tirato dritto, pensando agli scherzi della genetica e soprattutto a
dove avevo messo il bigliettino della spesa con i nomi dei little
pony, il primo frutto letterario di una mente già devota al calcolo.
venerdì 8 marzo 2013
Scrivo da una cella
Scrivo da una cella, da sotto una foglia rovesciata e resa dura da stagioni e stagioni. Scrivo, con poco spazio per i gomiti talvolta, eppure quelle volte mi faccio bastare le dita, le falangi, le unghie e se occorre due moncherini di carne viva. Faccio gesti che sembrano ragni, artrosi, e più ci sono stagioni e più mi restringo in questo spazio di resistenza, affacciato sul giorno da una crepa.
mercoledì 6 marzo 2013
Unghie colore glicine
Lei stava lì, al di là del bicchiere,
forse l'aveva già vista, o forse era solo una bella fisionomia, di
quelle che gli piacevano e basta e per questo gli sembrano tutte
uguali. Stava lì con la sua faccetta bruna, insieme a altre due, a
dire cose o a mietere vittime, chissà. Poi era arrivato l'altro, con
quell'odiosa barba modaiola, proprio mentre lei sembrava lo avesse
guardato un attimo. Era arrivato, troppo presto, con quella barbetta
e i capelli alti, mossi, lunghi, corti, non si capiva, comunque
modaioli anche quelli. Alla fine mentre sorseggiava, li vide muovere
le labbra in modo sempre più frenetico finché era chiaro che
stavano litigando; ruggiti afoni, facce contorte, e i capelli di
lei che sembravano un'ala di corvo sbattuta dai venti. All'improvviso
l'altro batte un pugno sul tavolo così forte che increspa la
superficie della birra nei bicchieri, s'alza e se ne va. Bene pensò,
si riapre il mio dialogo muto con quegli occhi, un segno del destino.
Ma sbagliava. Stavolta lei lo fissava, ma non come prima, quello di
prima era uno sguardo, un guizzo impertinente, un'evasione chiusa in
una bolla di sapone, adesso invece erano occhi estraniati, fissi nei
suoi, ma vuoti. Lo guardava ma pensava all'altro, era ovvio. Si
convinse, si alzò e mandò giù l'ultimo sorso di vino, sorrise, e
lei non ricambiò ma gli riservò ancora il suo sguardo immote,
perso, fermo all'ultimo fotogramma di quel litigio con l'altro,
stringendo il vetro del bicchiere con le sue unghie colore glicine.
Anzi colore vince chi fugge.
(06.03.13)
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