Valentina, sei anni, la domenica è
una disperazione più del solito. Forse l'assenza della scuola, la
noia, il troppo che ha. Sembra una trottola. Stavolta però, verso le
sette di sera, si ferma di colpo, perde il sorriso, si spegne come un
interruttore della luce. Non mangia, non gioca, non sta neanche in
piedi. Dice solo due parole, con un filo di voce: “mi fa male qui”
e indica con il dito il pancino, in basso a destra. Temo il peggio,
un'appendicite. Per fortuna in ospedale ci liquidano con una pizzico
sulla guancia a Vale e un pacca sulla spalla a me. Forse una colica,
forse solo un po' di stanchezza trasfigurata subito in un mostro dal
mio occhio apprensivo. Ogni volta che sta male, però, che perde il
sorriso, che ti guarda quasi consegnata, arresa, è sempre così: mi
maledico. Mi darei cento volte la testa al muro. Tante volte per
quante volte l'ho rimproverata di stare ferma, di non gridare, di non
fare capricci, di non saltare sui divani, di non guardare i cartoni a
oltranza, di non litigare con la sorella, di non sputare l'acqua
fuori al lavandino quando si lava i denti, di non scrivere sui muri,
di non mettere le caccole sotto il tavolino porta tv. Quando non si
sente bene, dico ogni volta, pregando il signore, Valentina fai tutto
quello che vuoi, rompi tutto, grida, fai capricci, che papà, te lo
giura, non ti dice più niente. Basta che sorridi, basta che non ti
fa male niente, basta che ritorni come sei. Una rompipalle, una
bambina perfettamente in parte.
martedì 12 novembre 2013
mercoledì 21 agosto 2013
Un sogno bello vale cento brutti
- Papà faccio sempre brutti sogni.
- A sette anni? Non ci credo Chiaretta.
Comunque non c'è niente di strano, li faccio anch'io.
- E tu che sogni Papà?
- Sogno di scappare sempre da qualcosa.
E tu?
- Non mi ricordo. Però mi ricordo un
sogno bello. Che scivolavo su un arcobaleno.
- E poi?
- Cadevo su un prato di fiori.
- E poi?
- E poi c'era Valentina, e ci
prendevamo per mano.
- E dove andavate?
- Papà, siamo tornate a casa, è
ovvio.
- Amore, lo sai che penso...
- Che cosa?
- Che un sogno bello vale cento
brutti... e...
- Che cosa?
- La prossima volta che tu e Vale state
su quel prato di fiori chiamatemi.
- Papà, ma che dici? E' un sogno!
- Papà, ma che dici? E' un sogno!
martedì 20 agosto 2013
Appunti cagliaritani: diario di viaggio 26 giugno-03 luglio 2013 di Giovanni Rossi
PARTENZA
Quando
atterro mi accogli sulla tua terra rossa e il mare verde.
Abbracciandomi stretto. Levandomi il fiato già dimezzato da tanta
distanza da casa.
PRIMO
GIORNO
-
Ciao
-
Ciao
-
Non sparire
-
No, lo sai, dai, ...e poi ormai sono contento, dai, sai fare tutto,
ti ho insegnato tutto...
-
Non sparire...
-
No, non sparisco, sentiamoci
-
Ok, dai.. ciao
-
Ciao.. mi mancherai
A
parte questo, tra il ragazzo muscoloso coi baffetti alla messicana e
la signora dietro al banco col camice, gli iridi azzurri e i capelli
nerissimi, c'era troppo silenzio. Il silenzio che si forma quando gli
occhi si baciano a lungo. Non avevo chiesto nulla, né il pane né il
formaggio. Sapevo che potevo fare a meno di tutto. Lei avrebbe
servito molti clienti, ma tutto sarebbe stato diverso. Avevo
preferito lasciarla così, ferma dietro al banco, quasi in pasto agli
altri, con quell'addio negli occhi, e non le avevo chiesto niente.
Ero sgusciato via, convinto che lei non si fosse mai accorta di me,
avevo raccattato una busta di taralli e ero uscito. Mi era sembrato
un buon inizio. Avevo di che sperare da una terra che mi lasciava
intravedere i segreti degli altri. Era come per dire, qui le cose
succedono.
SECONDO
GIORNO
Sarà
questa sabbia a cui non avevo niente da ridire, o il promontorio, o
le bocche di Bonifacio che stavano lontane come un sogno terribile, o
i lidi che c'erano e potevano non esserci. Sarà che non riuscivo a
restare semplicemente e allora mi dilungavo sui tetti, forse potevano
essere più bassi, o piatti o senza tegole, e le palme o gli
oleandri, forse più radi, sparsi meglio, o il turchese del mare,
meno circoscritto, più aperto, magari più profondo, magari con echi
soffocati di qualche relitto. Anche una barca a vela in lontananza,
credevo potesse stare a Viareggio, a Terracina, ma non qui; sembrava
troppo costipata in una prua e una poppa, sembrava stare lì e aver
paura. Insomma potevo immaginare l'Assuncion dei cantieri Simeone, o
una qualsiasi goletta con la chiglia scavata dalla mareggiate,
addirittura un gozzo con sopra, che so, Salvatore detto Paco, che in
apnea recuperava anfore e stelle marine. Niente ad eccezione di
questo. Solo così potevo stare. Eppure, al mio arrivo, nonostante
tutto, avevo assistito a un arrivederci e mi era sembrato un buon
segno. Anzi era stato precisamente un addio travestito da
arrivederci. Era stato prima di dialogare con l'acqua che è sempre
così volubile. Era stato stato giusto mezz'ora prima. Era stato
anche prima di conoscerti. Per caso. O meglio, era stato prima di
conoscere il tuo nasino arricciarsi per chiedere lo sconto a un tizio
sulla spiaggia per una veste bianca coi fiori azzurri. Io ti avevo
salvata. Anche questo mi era sembrato un buon segno, ancora meglio
del precedente, perché aveva avuto tutta l'aria di essere un inizio.
C'era già tutto, età, bellezza, e reciproca sofferenza da guarire.
TERZO
GIORNO
Al
Poetto, andavo e venivo tra l'ombrellone e la battigia. Cercavo di
convincermi inutilmente sull'acqua, e cioè che non fosse fredda.
Quando sei arrivata non l'ho visto. Mi sono girato e ho i visto i
tuoi denti bianchi farsi spazio in dei sorrisi. Stavi trattando
l'acquisto di un abito leggero, a fiori. Dicevi che non era cotone,
che non era come diceva lui. Crollavi il capo, sorridevi, e
soprattutto arricciavi il naso. Un nasino piccolo, che a ogni sorriso
si dilatava appena, pulsava come il petto di un uccello.
-
Lascia stare, hai ragione non è cotone – ho detto di colpo
venendoti in aiuto.
Il
nero si è girato verso di me e poi verso di te. - Ok deci
euro, va bene, deci euro – ha detto arrendendosi e
spingendoti la mano che teneva il vestitino.
Hai
pagato e mi hai guardato. Stavo già fermo nei tuoi occhi.
-
Grazie - hai esclamato.
-
Figurati. Comunque bello il vestito.
-
Eh sì bello. Ti piace? Oddio, è una cosina così, io mi diverto a
comprare d'impulso, poi puntualmente abbandono tutto nell'armadio –
mi hai risposto sorridendo come a chiudere una confidenza, come se
già ti appartenessi.
QUARTO
GIORNO
Questa
terra arida e ventosa coi fichi, le bouganville, oleandri, e fiori
gialli dappertutto, sta a metà strada tra gli alberi formiani pieni
d'aria e di sole e i noci, i castagni, gli ulivi, le ginestre di
casa. Questa distanza incolmabile si aggiunge al desiderio di vedere
un solo fico d'india maturo, uno solo, uno che si distingua dagli
altri che assomigliano a olive verdi e spinose, uno da poter tagliare
sul giornale, togliendo due dischi ai lati e srotolando la pelle
arancia al centro. Potrei stare seduto su un muretto basso di pietra,
e stare in buona compagnia. Magari vederti sbucare o addirittura
vedere mia madre che arriva da dietro e mi abbraccia.
QUINTO
GIORNO
Mi
chiedi di chi sono le mai perfette di cui parlo. Non sono le tue.
Delle tue non dico una parola. Neanche dello smalto, così indeciso
(e critico verso il celeste) e così duraturo. Le tue mani sono vive
come come ogni cosa. Come stamattina accanto le barche e i pescatori,
sotto la Sella del Diavolo fino alla punta di Cala Caterina
dall'altra parte. Anche qui è tutto vivo, compreso i pontili e i
lidi mezzi vuoti, e sembra non mancare niente, neanche le tue parole
che avanzano a fiotti come i pesci e arrivano all'improvviso, quasi
sbucano dal nulla.
SESTO GIORNO
Oggi c'è troppo sole e troppa acqua. Ho bisogno di
fresco vero, magari di Taburno, di faggi, abeti, aghi di sottobosco,
palizzate di castagno, foglie secche che ammortizzano i passi, pietre
a circolo per il fuoco, e cartacce, sante cartacce, compreso qualche
piatto di plastica. Invece niente. C'è mare e vento. Soprattutto
vento. Vento che si chiama maestrale e basta. Vento che dalla sella
del diavolo attraversa il Poetto come una freccia. Questo vento
stempera tutto. Il sole insistente e l'acqua troppo fredda. Corre e
mi fa pensare che posso ritornare dove sono partito. Sotto le costole
della dormiente del sannio. L'unico posto dove le mie ossa già
corteggiano la terra.
SETTIMO
GIORNO
Da
Cagliari centro guardo il castello. Piega verso il basso, forse verso
il mare, ma non ci metto la mano sul fuoco. Anzi, può darsi che
resti lì sospeso, a guardare il panorama. Niente a che fare con
Posillipo o con via Luca Giordano, o con Sant'Antonio sopra Formia
che coi pini radi si strofina sul mare come un innamorato. Il Gargano
è lo stesso, la foresta cade nel mare, lo buca, lo possiede.
Cagliari centro resta lì, sospesa e provinciale. Tutto è fermo.
Tranne i gabbiani, i fenicotteri e i fichi d'india appena fuori il
Poetto. Sono segni precisi. Che non puoi fermarti al castello, al
centro, ai palazzi. Anzi non devi. E' troppo poco. Bisogna pugnalare
questa terra ventosa. Fino ad arrivare a Padria, dove si bardano i
cavalli e si fa il latte negli ovili. Dove i pastori fanno gli
spuntini mentre la notte copre le pietre dei nuraghi.
ARRIVO
Cagliari,
mi fai voltare indietro come un amante ferito, come un animale che ha
perso il padrone. Non ti amo ma è un buon inizio. Sento che da te
ricomincerà un viaggio a ritroso verso la voce di mia madre. La
prossima volta ritornerò calandomi dall'alto, passando da
Pozzomaggiore, Padria, Bosa, diritto verso il Poetto, tra il mare e
la terra brulla.
martedì 13 agosto 2013
LETTI... DI CARTA (Daniele Del Giudice - Lo stadio di Wimbledon)
"Anche se è stato
un sonno breve, come questo di mezz'ora, dopo bisogna ricominciare
tutto da capo. Sono procedure normali della continuità, e seduto in
treno posso farle con delicatezza."
"Salto le righe,
rileggo la stessa frase senza accorgermene. Non riesco a distinguere
il ritmo delle parole dal ritmo del treno, dal ritmo del respiro,
finché il corpo non resiste alla gravità a anche la bocca scende
giù. Mi sono addormentato."
"Insomma lui viveva
per il gusto di fare esperienze, già da giovane; non aveva mai
impostato la sua vita proponendosi uno scopo ma come diceva lui
stesso nel divertirsi a vivere. Divertirsi a vivere non è lo stesso
che essere felici di vivere."
"Dico: -Non so. Una
volta ho letto che "scrivere non gli interessava", un'altra
che era "oltre il libro". Penso a tutto lo spazio che c'è
tra queste due cose, a quanta fatica si fa ogni volta per spostare
tutto al di qua o al di là. In mezzo potrebbe esserci uno scrittore
senza libri. Lui non è l'unico, è pieno di scrittori senza libri,
chissà quanti ce ne sono, anche adesso, in questo istante. Però lui
ha scritto, in modo sotterraneo, parallelo, quanto bastava, per far
capire che non avrebbe scritto. Per questo è lì, in quel centro. Ho
letto anche che quel centro non esiste, è il vuoto. Certe volte mi
sembra che non ci sia cosa più forte del vuoto, o del niente: taglia
ogni questione, la rende perfetta, motivata."
"Cambiava pelle
spesso, e qui anche stava la sua incapacità di realizzare;
dimenticava ciò che aveva fatto, non per un voler superare ma per
un lasciar cadere..."
"C'è sempre un
momento quando sono a largo in cui succede; non so quanto è profondo
qui, potrebbe esserci una secca o un basamento sottomarino, e magari
adesso nuotando col piede potrei toccare un metallo arrugginito,
un'ombra visibile e mossa, la punta di un'ala fracassata. Avvertirei
sotto la pelle tenerissima dei piedi lo spessore gelido di una
lamiera piena di buio, di una carlinga triste, piegata,; scivolerei
sul fianco di un relitto disperso, mai localizzato, dunque ancora con
tutti i resti o con quello che può restare dopo un'immersione così
prolungata..."
"Lei riprende:
-Vedere non è importante. E poi esiste il contrario: essere
invisibili, quando si è in un particolare stato d'animo, opachi, da
un'altra parte. Le è mai capitato?-"
"Sono fermo davanti
al treno di alluminio, con alle spalle un sole basso, di taglio. Non
sono mai stato così all'inizio, determinato e incerto. Aspettando
che le porte si aprissero ho cercato nella tasca il margine del
biglietto. Ho sollevato la borsa. Nell'altra mano tenevo il pullover,
con la delicatezza con cui si tiene un bambino."
lunedì 12 agosto 2013
Le giostre sotto casa
Mi hanno piazzato le giostre sotto casa. Quando le bambine hanno saputo che sarebbero rimaste una settimana hanno urlato di gioia. Ho dovuto subito transigere la cosa. Ovviamente una brillante transazione per loro. Cinque giorni su sette siamo siamo andati in pellegrinaggio dai giostrai. Al posto del giro delle sette chiese, la sera abbiamo fatto quello delle sette giostre. In ordine: scivolo gonfiabile, macchine a tozza, calcio in culo, tazze volanti, trenino, pesca delle ochette. Abbiamo fatto pelo e contropelo a ogni giostra. Valentina ha dato il meglio di sé. Euforia ai massimi livelli e energia inesauribile. Solo al momento di andare a casa, cioè quando bisognava fare un pezzettino di strada a piedi, simulava improvvisi collassi fisici. Rimproveri, minacce, strattoni. Niente. L'ultimo giro di giostra puntualmente se l'è fatto sulle mie spalle.
Dr.Jekill e Mr.Hyde
Per scrivere bisogna praticare il doppio: Dr. Jekill sta in superficie, rifinisce, ricama, e se va proprio bene, firma le dediche sui libri, ma il lavoro sporco, il momento in cui la penna deve essere messa sul foglio bianco e bisogna calarsi giù, se necessario, fino a toccare gli abissi, è tutta roba di Mr. Hyde.
Non esistono i posti
Non esistono i posti, non sono mai esistiti. Non saprei riconoscere una quercia di periferia o un monumento della mia città, compreso le pietre di fiume, neanche i castagni sotto al Taburno, neanche i noccioleti dopo Pietrastornina, neanche le colline brulle di Pietrelcina, o le ginestre sulla punta più alta del sentiero che da casa di mia madre arriva a contrada Torre Alfieri. Esistono i posti grazie agli altri. Anche oggi, solo se ci sei, tutto diventa più preciso, netto, vivo come la carne, anche nel buio pesto, ad esempio, saprò dirti se sto nel letto, in un prato o per strada. Un posto solitario, se ci pensi, dipende da noi, non certo dagli alberi radi o da una casa diroccata in mezzo alla campagna.
La morte dovrebbe presentarsi onestamente
La morte dovrebbe presentarsi onestamente, senza mezzi termini, senza strisciare nelle vene, o arrivare da dietro mettendo le mani sugli occhi, la morte non dovrebbe giocare come fa il gatto col topo, né mettersi nei corpi come un camaleonte, dovrebbe stimarci di più, come facciamo noi, che lasciamo il nome sulla pietra e le consegniamo tutto, a viso aperto, senza nascondere neanche un osso o un centimetro di pelle.
sabato 15 giugno 2013
Ultime memorie
All'improvviso
vengo abbagliato. Alzo gli occhi senza fare un movimento. E' tutto
giallo. Nel bagliore distinguo tre puntini. Sembrano tre lucciole
grige. Istintivamente mi alzo un po' e
cerco di assumere una posizione di difesa. I puntini avanzano
lentamente e diventano sempre più grandi e smaglianti. Quando sono davanti gli occhi, appena sopra la testa, mi accorgo che non
sono puntini ma armi. Nel preciso istante in cui i miei centri
nervosi mi dicono che devo contrarmi e scappare sento un bruciore
acuto e acquoso penetrarmi in tre punti, uno dietro il carapace, uno
sopra, e uno in mezzo gli occhi. Ho freddo, contraggo le chele e le
avvinghio attorno alle lance di metallo. Mi sento sollevare dalla
fiocina e sento un bruciore attorno al carapace che adesso si
sta distaccando, vedo altri granchi attorno a me, siamo in una
circonferenza rossa, anzi bianca, no grigia, anzi non lo so, non vedo più, è tutto
nero, è nero che sta dentro, è buio... buio.
domenica 19 maggio 2013
Ken Parker, la mia prima volta...
Avevo
circa 10 anni. Passavo le estati a Formia dai nonni materni. Erano
stagioni lunghe, interminabili. Quando a settembre rientravo a
Benevento era trascorso talmente tanto tempo che avevo voglia di
riabbracciare persino i marciapiedi. La mattina andavamo al mare e il
pomeriggio stavamo nel quartiere San Giulio. I bambini
facevano le bancarelle di roba usata. Rovesciavano le scatole di
cartone e ci mettevano sopra fumetti e ciarpame vario. Spiccavano
quasi sempre i Tex, Zagor, Mister no, Diabolik, Topolino. C'era
qualcuno che aveva anche i Ken Parker, pochi numeri messi più in
disparte, relegati in un angolo della bancarella, già a
testimoniare una diversità, una nicchia. A quei tempi non leggevo
Ken, però mi ricordo che rimanevo incantato dinanzi alle sue
copertine. Era la prima edizione Cepim, futura Sergio Bonelli. Molto
più tardi ho saputo che su quelle copertine c'erano i superbi
acquerelli di Ivo Milazzo. Tessiture leggere, diluizioni, accenni
alabastrini, sintesi, espressioni dei volti. Leggendo, ho appreso
che i disegni di Milazzo erano ispirati dalle storie di Giancarlo
Berardi, un narratore che mostrava l'umanità con un registro di
misurata malinconia. C'è sempre una prima volta. Il tardi e il
presto sono concetti relativi. Ken Parker l'ho letto e riletto molto
dopo, ma il mio ricordo è lì, sotto il palazzo di mia nonna,
durante quelle estati lunghe, con l'adolescenza tra il mare e il
quartiere San Giulio.
sabato 6 aprile 2013
Chiara e lo spasimante
Chiaretta sette anni,
perfezionista, programmatrice, cervellotica. Sarebbe capace di ragionare anche sulle pietre dove cammina. La osservo e mi smarrisco
dentro la complessità di quel mondo che sembra un labirinto chiuso
da una porticina. Già compatisco il futuro fidanzato, poverino, che
dovrà essere un giocoliere, esperto di quella sottile arte del
riuscire ad avere senza chiedere e senza contraddire. La mia
preoccupazione è diventata addirittura concreta quando l'altro
giorno mi ha detto che era infastidita da un piccolo spasimante
occhialuto.
- Papà, pensa, mi ha
regalato un bracciale di perline...
- E tu l'hai ringraziato?
– le ho chiesto conoscendola e già temendo il peggio.
- No papà, mi sono
arrabbiata, gli ho detto: "Lo prendo, ma sappi che non lo
metterò mai!"
venerdì 5 aprile 2013
Pasquetta
Pasquetta è democratica, basta poco, come fare una piccola spesa all'ultimo secondo, anzi racimolare i resti, quell'arte insuperabile del -non si butta niente-. Quella in cui le nonne sono maestre. Come mia nonna che dagli avanzi tirava fuori pranzi e cene per altri quattro giorni. Pasquetta è l'unica festa che sta al traino, si aggancia di straforo alla liturgia. Il picnic che non si nega a nessuno. Sorge dalle sue ceneri. Anche in una giornata di pioggia, di vento. S'impone a tutto. Compare dal cilindro del prestigiatore, come sbucavano le quattro sedie dal tavolino di formica rossa che mio padre apriva come un portafoglio: a Bocca della Selva, sul Laceno, sul Camposauro, a Campitello. La magia usciva da quel tavolino a valigia e voleva dire che -basta poco-, anche se ci sono cose irraggiungibili, che stanno lontane, a luccicare come foglie al tramonto, a vantarsi mentre beviamo un buon bicchiere su una sediolina dolcemente in bilico.
domenica 31 marzo 2013
Auguri mamma
Scrivere di morte è come
liberarsi dagli spettri, scagliarli più in là, a qualche metro, per
osservarli e sentirsi pacificato. Così scrivo di questo andare da
mia madre e di pensarla. Mentre cammino la immagino a casa sua, fuori
il porticato, con le mani nella terra di quel vaso grande a sinistra
del cancello, a mettere le begonie che come ogni anno vogliono dire
estate. Quando si gira la vedo sorridere e dire: - Prendi il
rastrello, aiutami, vedi c'è quella aiuola. - La immagino così,
scaldata dal sole, a qualche metro dall'ulivo abbracciato da un
asparagina bassa e da quattro fili teneri. La immagino coi capelli
bianchi, quelli che non le ho mai visti, e d'un tratto, senza
accorgermene sono davvero da lei, tra i fiori. Non devo più
immaginare, se non vederla, bella, anche sotto quella pietra, che
accarezzo e per la prima volta ho quasi voglia di abbracciare.
sabato 30 marzo 2013
Bosco Verdito
Andiamo da Lorenzo.
Stefano ingoia le curve e io come al solito un po' parlo e un po' penso ai fatti miei. Scavalchiamo Paduli e scendiamo a valle, in un
posto solitario che si chiama Verdito dove tira un vento freddo,
forse l'ultimo dell'inverno. Arriviamo in mezzo a un caseggiato basso
con dei capannoni a sinistra, ci scivoliamo di lato, lungo una
discesa ancora sporca di fango, fino alla cappella di San
Giuseppe. A destra ci sono attaccati dei ruderi silenziosi, una
specie di braccio ingessato dal tempo, e a sinistra c'è una baita
bassa e larga tutta di pietra costruita su dei sassi che sembrano
ippopotami. Lorenzo arriva di soppiatto e ci
saluta orgoglioso del suo piccolo medioevo. Rimarchiamo ogni pietra della cappella di San
Giuseppe e poi ci entriamo. Lorenzo dice che è meglio di notte, ci
sono le luci; a me va bene così, domani è sabato, fuori c'è vento,
e il pomeriggio va a calare illanguidendo ogni sensazione. La
cappella è stata appena sistemata da un restauro, di quelli
rammemoranti, che si fanno in punta di piedi, dalle fondamenta fino
alla campana del 1600. Giriamo intorno al rudere, fino alla stalla,
ci lasciamo a destra un capanno vecchio west con quattro maiali, e ne
approfitto, faccio un filmatino alle bambine, coi musi dei maiali che
si abbaruffano per un ciuffo d'erba che infilo nella rete. Siamo
sull'orlo della valle, sulla parte più alta degli uliveti.
- L'olio buono è una
gara contro il tempo, deve andare al frantoio di corsa, poi le piante
le lascio nell'erba e quando le poto macino tutto e lascio anche quei
resti... - mentre Lorenzo parla penso a quanto sarebbe bello un tocco di campana, ora, nella valle,
ci sentirebbero a Paduli e a Pago Veiano, a San Marco dei Cavoti, a
San Giorgio La Molara, chissà addirittura in Puglia, sul Gargano.
Entriamo nella casa bassa di pietra che è stata costruita addosso a
dei macigni. La mamma di Lorenzo ci offre i biscotti alle mandorle
appena fatti e un caffè. Siamo seduti a un tavolo di legno lungo e
magro, alle nostre spalle c'è un camino con una grande bocca buia.
Nel frattempo guardiamo fuori, oltre il porticato. La grossa siepe di
lauro ha preso uno specie di fungo, una patologia che la sta facendo
arrugginire. Lorenzo e Stefano ne parlano come se fosse una vecchia
zia di famiglia, citano rimedi, terapie, addirittura usciamo e ci
giriamo attorno. Li sento dire di potature drastiche, di trattamenti,
di quanto era rigogliosa fino a qualche tempo prima. Costeggiamo il
campo di favini mentre sotto il capannone due meccanici fanno
manutenzione alla trasmissione della trebbiatrice. Lorenzo farà
ruggire quel mostro d'estate e qualche volta si metterà proprio lui
alla guida, - Oggi faccio io -, dirà all'operaio allontanandolo con
un braccio. Abbiamo ancora poco tempo, giusto quello necessario per
prendere l'olio, di due colori ma della stessa terra, degli stessi
ulivi che si aprono a valle ai lati della cappella di San Giuseppe.
Gli ulivi coi piedi nei ciuffi d'erba. Quelli che guardano il fiume
dall'alto. A questa valle bisogna essere abituati. Come Lorenzo. E
come Lorenzo bisogna avere il gusto di raccontare ogni pietra e ogni
pianta. Senza alcuna fretta e senza dover inventare nulla, stando semplicemente affacciati.
domenica 10 marzo 2013
Benevento
Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia città. Devo fare qualcosa
di piccolo, in un tempo enorme, dilatato. Qualcosa di
semplice in una città frettolosa, difficile, indurita. Devo fare
leva in una breccia, un interstizio, incunearmi con fatica,
stritolarmi, e uscire dall'altra parte, partorito, talmente
estraniato che i primi momenti mi servono per ambientarmi.
Così scendo di casa e
percorro i marciapiedi cenere, giro a destra e sfioro la ringhiera
del palazzo quasi all'incrocio con via Solimene, dove le foglie dei
ciclamini già mandano note dolci. Sul viale Mellusi posso osservare i lecci e le palazzine popolari fino a
"piazza". A sinistra c'è il discobolo di
pietra che sta nascosto dietro il cancello della Mazzini. Mi giro
sempre perché mi ricordo quando ci giocavo dentro le gambe e tra i
polpacci, mentre mia madre insegnava educazione fisica
nella palestra. Poi viale dei Rettori, l'arco, la chiesa di S.Ilario, il ponte Vanvitelli, la piazza dell'Upim vecchio, la stazione, il fiume, la Madonna delle Grazie, il ponte di ferro dei treni,
due pini alti, un casolare basso, un'altro ponte verso Cellarulo, e
ancora il fiume. Ci corro assieme, io a destra e lui a sinistra,
mentre incide prati di zolle, gramigna, scarabocchi di rovi, faggi,
fino al Taburno, dove la punta esile dell'acqua esce dal collo della Dormiente. Ho poche occasioni per
riconciliarmi con la mia terra, come scrivere da una crepa e
correre nella mia città, dirle di sì, attraversandola sul dorso, sentendola pulsare sotto i piedi.
sabato 9 marzo 2013
Il primo bigliettino
Chiaretta sa scrivere. Sei anni, che
soddisfazione. Non so se promette bene, ma sa scrivere. Non l'ho
seguita nel lavoro sporco delle lettere tremanti, di quelle prime
linee puntellate e malferme. A quello ci ha pensato la madre. Io
l'ho vista scrivere all'improvviso, senza fasi intermedie, come un
fiore sbucato da un manto di neve. Poi l'altro giorno mi ha
consegnato un pezzetto di carta, il primo bigliettino. Che emozione.
Una frase tutta sua, un pensiero, magari la sua prima metafora. Ho
aperto quel pezzetto di carta con delicatezza, quasi stessi toccando le
ali di una farfalla, e sono rimasto perplesso: "Rarity Pinkie
Pie". Siamo già all'inglese? Non può essere!
- Chiaretta ma che significa?
- Papà sono Little Pony, a me devi
comprare Rarity, e a Valentina Pinkie Pie, te li ho scritti così
quando vai al negozio non sbagli.
- Ah, ho capito – ho risposto deluso
fissando il suo sorrisino soddisfatto.
Cominciamo bene ho pensato, l'approccio
di Chiaretta alla scrittura è stato tra i peggiori, completamente
utilitaristico.
Ma il colpo di grazia è arrivato
qualche giorno dopo. Per puro caso, mentre ero di transito in cucina,
ho ascoltato due battute secche tra lei e la madre mentre erano alle
prese coi compiti.
- Ti piace più l'italiano o la
matematica?
- La matematica, mamma.
Ho fatto finta di non sentire. E ho
tirato dritto, pensando agli scherzi della genetica e soprattutto a
dove avevo messo il bigliettino della spesa con i nomi dei little
pony, il primo frutto letterario di una mente già devota al calcolo.
venerdì 8 marzo 2013
Scrivo da una cella
Scrivo da una cella, da sotto una foglia rovesciata e resa dura da stagioni e stagioni. Scrivo, con poco spazio per i gomiti talvolta, eppure quelle volte mi faccio bastare le dita, le falangi, le unghie e se occorre due moncherini di carne viva. Faccio gesti che sembrano ragni, artrosi, e più ci sono stagioni e più mi restringo in questo spazio di resistenza, affacciato sul giorno da una crepa.
mercoledì 6 marzo 2013
Unghie colore glicine
Lei stava lì, al di là del bicchiere,
forse l'aveva già vista, o forse era solo una bella fisionomia, di
quelle che gli piacevano e basta e per questo gli sembrano tutte
uguali. Stava lì con la sua faccetta bruna, insieme a altre due, a
dire cose o a mietere vittime, chissà. Poi era arrivato l'altro, con
quell'odiosa barba modaiola, proprio mentre lei sembrava lo avesse
guardato un attimo. Era arrivato, troppo presto, con quella barbetta
e i capelli alti, mossi, lunghi, corti, non si capiva, comunque
modaioli anche quelli. Alla fine mentre sorseggiava, li vide muovere
le labbra in modo sempre più frenetico finché era chiaro che
stavano litigando; ruggiti afoni, facce contorte, e i capelli di
lei che sembravano un'ala di corvo sbattuta dai venti. All'improvviso
l'altro batte un pugno sul tavolo così forte che increspa la
superficie della birra nei bicchieri, s'alza e se ne va. Bene pensò,
si riapre il mio dialogo muto con quegli occhi, un segno del destino.
Ma sbagliava. Stavolta lei lo fissava, ma non come prima, quello di
prima era uno sguardo, un guizzo impertinente, un'evasione chiusa in
una bolla di sapone, adesso invece erano occhi estraniati, fissi nei
suoi, ma vuoti. Lo guardava ma pensava all'altro, era ovvio. Si
convinse, si alzò e mandò giù l'ultimo sorso di vino, sorrise, e
lei non ricambiò ma gli riservò ancora il suo sguardo immote,
perso, fermo all'ultimo fotogramma di quel litigio con l'altro,
stringendo il vetro del bicchiere con le sue unghie colore glicine.
Anzi colore vince chi fugge.
(06.03.13)
sabato 23 febbraio 2013
Una serata romantica
Sì! Finalmente ci siamo riusciti.
Siamo tornati liberi, spensierati e senza figli. Come quando ci siamo
conosciuti. Come la prima volta. Abbiamo lasciato le bimbe da mia
suocera. Gliele abbiamo rifilate con una sapiente strategia di
incastri. E' una sensazione strana. Quasi da ladri. E pensare che ce
l'ha detto anche quella psicoterapeuta amica di mio fratello. A cena,
qualche tempo fa. Disse ai genitori presenti di concedersi una serata da soli, obbligatoriamente, almeno una volta ogni tanto.
Eppure ci sentiamo così. Quasi imbarazzati. Bambini con la
coscienza sporca. Respiriamo quest'aria umida a tre gradi che ci
promette grandi cose. Il mondo è nostro. A che ora era lo
spettacolo? Alle 21.00. Perfetto. Teatro eccoci, stiamo arrivando!
Dinanzi al cancello chiuso subito mi insospettisco. Un deserto
silenzioso. C'è solo un gatto seduto che ci guarda come una piccola
sfinge. Comincio a smanettare nervosamente sul telefonino. - No! Lo
sapevo! Non era per oggi. Era domani! Per forza, devi fare cento
cose tutte assieme, è normale che vai in confusione – esclamo ad alta voce tentando di
giustificare me stesso, ma è inutile. Oramai è fatta. Poco male.
Anzi meglio. Sarà una serata ancora più intima. Alzo gli occhi al
cielo.
- Visto che luna? La serata è ancora
nostra.
- Ma veramente non vedo niente?
- Per forza, con questa nebbia si è
messa l'impermeabile. Lascia stare. Piuttosto andiamo a casa. Una
bella seratina romantica tutta per noi ce la meritiamo proprio.
Annuisce con aria poco convinta.
A casa finalmente.
C'è un silenzio bellissimo. Senza
capricci, pianti, nasi gocciolanti, hai fatto i compiti, basta
cartoni, finite di mangiare prima di alzarvi, mettete a posto i
giocattoli, giù dal divano che vi fate male.
Dopo pochi minuti quell'assenza di
suoni diventa quasi spettrale, inquietante. Nella cucina silenzio. Il
salone una tomba. La stanza delle bambine è il colpo di grazia.
Sembra un cucciolo senza voce. Sento l'ansia che comincia a montare
irrefrenabile, mentre lei mi guarda con occhi smarriti. Simulo
tranquillità e trovo addirittura il coraggio di dire: - che
meraviglia di serata - tutto inutile, oramai. Dall'altra parte
della stanza la sento già al telefono che si informa sotto voce: -
allora? che fanno? - e nel frattempo rimango immobile, stordito da
questa calma piatta, rimuginando un unico pensiero come un tarlo: -
mò quasi quasi vado e me le riprendo -
(23.02.13)
sabato 16 febbraio 2013
Ho sbagliato laurea
Lo sconosciuto alza il
mento. Socchiude gli occhi. Fissa per diversi secondi la targa di
ottone dello studio. Sembra stia compitando mentalmente ogni lettera:
a, v, v, o, c, a, t, o... Lo guardo attraverso i vetri della
finestra. Entra nel portone. Non finisco di immaginarlo salire i sei
gradini dell'androne che sento il campanello.
- Buonasera, sono un po' in anticipo.
- Prego si accomodi -
rispondo perplesso. Ho un vuoto di memoria.
Faccio mente locale. Niente da fare. Il volto mi è estraneo,
l'appuntamento mi sfugge. Attribuisco la dimenticanza alla mia testa,
come al solito.
- Avevamo un
appuntamento, vero? - gli domando sforzandomi di ricordare.
- Certo, beh... sì sì certo...
Entra smarrito,
strabuzzando leggermente gli occhi. E' tracagnotto, in abito
marrone, pullover e cravatta a fiori. Ha la fronte lucida e
sudaticcia nonostante fuori faccia un freddo cane.
- Ma ha cambiato
arredamento? - mi chiede spaesato.
- No, almeno di recente
no - rispondo.
- Forse le sedie, ne ha
aggiunta un'altra?
- No, sono sempre state
due.
Si siede. Mi fissa per
qualche istante. Sembra agitato. Fa un lungo sospiro e comincia.
- E' giusto che lo dica
subito: sto 'nguaiato, rovinato, non ho un euro. Mia moglie
mi ha lasciato. La voglio denunciare, ma non per i soldi, per
principio. Tutto quello che ne ricavo non mi interessa, piuttosto lo
regalo a lei. Ho pensato ai suoi consigli, che bisogna sempre
guardare al presente. Ma non ce la faccio. Farle causa è l'unica
cosa che può darmi un pò di serenità. Lei mi dirà: e l'avvocato
chi lo paga? Certo i soldi non posso chiederli a lei... scusi se
insisto, ma è sicuro che non ha cambiato la sedia? Me la ricordavo
più comoda...
Cerco di interrompere quel
fiume in piena, quel canovaccio che sembra uscire dallo stesso libro
a cui attingono tutti i clienti: - Le ripeto, le sedie non le ho
cambiate, ma andiamo per ordine, mi faccia capire...
- No, la prego, se no
perdo il filo – mi zittisce ansioso - l'altra volta mi ha fatto un
sacco di domande e alla fine mi sono dimenticato di dirle tutto
quello che dovevo dirle. Oggi invece non mi sta interrompendo e sento
che va molto meglio, lei mi sembra addirittura diverso...
Lo guardo sempre più
perplesso. Un caso clinico, penso. Inutile contraddire. Fra un pò
raccoglierò il mandato e lui uscirà dallo studio. D'altra parte è
chiaro, ha bisogno di parlare. Liberarsi. Scaricarmi addosso il suo
problema. Già mi sento sepolto da una zavorra mentre lo osservo
parlare più sciolto, rilassato. Eccolo di fronte a me. Quasi
completamente alleggerito. Ad eccezione delle tasche. Guardo l'orologio. E' trascorsa una goccia di
eternità. Me ne accorgo dall'aria pacificata dell'interlocutore.
Anzi. Dell'autore del soliloquio. Sta lì come un palloncino sgonfio.
- Beh quello che dovevo
dire l'ho detto, mi sento davvero bene - conclude con aria risoluta.
Si alza di scatto ed esce
dalla stanza. Sull'uscio, mentre siamo ai saluti, mi ricordo del
mandato.
- A proposito ho
dimenticato di farle firmare...
- Il consenso ai
trattamento dei dati, immagino - mi interrompe recuperando un barlume
d'ansia – no, no, non si preoccupi, tanto ci dobbiamo rivedere tra
15 giorni, giusto?
- Come vuole - replico
titubante - magari ci aggiorniamo prima telefonicamente e
concordiamo.
- Dottore non capisco, me
l'aveva detto lei, per i primi sei mesi abbiniamo al farmaco incontri
di psicoterapia ogni 15 giorni. Pensi che siamo al secondo e già va
meglio, e dire che nel primo incontro, le confesso, non mi aveva dato
affidamento...
- Mi prende in giro?
Quale dottore? Sono un avvocato! - controbatto con tono incazzato di
chi si è appena levato di dosso una zavorra che non gli competeva.
- Ma che dice? Un
avvocato? Come potevo immaginare? Lei mi ha ascoltato per un'ora senza interrompermi, con una tale pazienza, meglio di
qualsiasi psicoterapeuta, e per giunta non mi ha chiesto un soldo! - replica come se lo avessi tradito.
- Sarà anche così, ma
lei piuttosto non ha letto la targa fuori lo studio? Non ha letto il
nome sul campanello della porta? Non ha visto i codici? La toga
appesa alle mie spalle?
- Dottore, cioè avvocato, ripeto era lei che avrebbe dovuto avvisarmi, darmi un
segno, perché con i farmaci che prendo, come dire, sto un pò
appannato...
- Va beh, finiamola qui,
tanto oramai abbiamo perso tempo entrambi! E' evidente che c'è stato
un equivoco. Adesso mi scusi ma la devo salutare.
E così cerco di chiudere
la porta ma lui la ferma con il palmo della mano. Rimane sull'uscio e
mi fissa smarrito e sembra voler piangere.
- Avvocà forse lei ha
perso tempo, ma io no - mi dice con un tremolio alla voce – io mi
sono trovato proprio bene. Il mio dottore non mi fa parlare, mi mette
ansia, e poi i soldi che chiede, beh lasciamo stare, perciò se non
le dispiace la terapia la continuerei qui al suo studio...
- Ma che sta dicendo?
- Avvocà, non mi dica di
no, come cliente non le avrei dato un soldo, ma come paziente, stia tranquillo, la pago.
(16.02.13)
(16.02.13)
lunedì 11 febbraio 2013
Il lunedì è un giorno di festa
Anche stasera tiro
l'amaro bilancio del lunedì. Non ho combinato una sega o quasi. Il
mio datore di lavoro mi guarda severo, tamburellando la punta del
piede. Dovrei spiegargli che il lunedì mi sento smarrito. Appena
uscito dalla domenica. Come un sopravvissuto esce da sottoterra. Ma
non basterebbe. Allora vado al suo cospetto. Passo per il viale
Mellusi adornato di alberi spennati e straripante di cacche di cani.
Buongiorno lunedì, eccomi. Un'udienza. Minimo sindacale. Gli
adempimenti... va beh domani. Che ora è? E' lo stesso. E' lunedì.
L'unico giorno senza ora. E' tutto uguale. Si timbra il cartellino e
si arriva a sera. Tutto di un fiato. Il giorno dove sistemo la
scrivania in continuazione. E aspetto. E rifletto. E penso che posso
rimandare tutto a domani. In fin dei conti l'unico giorno dove sono
me stesso. Zavorrato a ogni pigrizia. Cullato da fantasie, personaggi, progetti senza utilità, gli unici che lavorano felici
come fosse un giorno di festa.
(11-02.13)
venerdì 8 febbraio 2013
Valentina e la rivale ingioiellosa
Sabato di una tersa mattinata di febbraio, conversazione gossip con Valentina, anni 5, mentre sorseggia il suo latte e nesquik con fare civettuolo come se stesse seduta a un bar sul lungomare di Positano:
- Papà lo sai che Giulio è il mio fidanzato?
- Valentina ma non era Italo?
- No, Italo si è fidanzato con Oriana.
- Ah veramente?
- Si Papà, perchè Oriana è una sfacciata, gli fa le carezze e sta sempre tutta ingioiellosa, adesso scusa ma vado a giocare, ti dispiace?
- No a Papà , vai pure...
- Papà tu non ti fidanzi con Oriana vero?
- Valentì, ma come ti viene? No, certo.
- Ah per fortuna, perchè tu sei il mio papà preferito...
- Grazie Valentì, meno male...
(03.02.13)
(03.02.13)
Fuoco di Sant'Antonio
Lungo il corso le pietre sono fredde e grige. L'isola pedonale più amata dalle auto.
I lampioni gialli si riflettono nel mosaico bianco del pavimento. Il drago che sta lì smarrito e a distanza di anni ancora si chiede come ci è finito a Benevento.
All'altezza di Piazza Guerrazzi il corso rimanda bagliori arancioni. Ci giriamo, io e un amico, e c'è una colonna di fuoco alta come un palazzo. Si festeggia il santo. Quello che protegge gli animali. Nella notte di Sant'Antonio gli animali acquistano virtù. Soprattutto la facoltà di parola. Addirittura nelle stalle i contadini possono udire le loro bestie in conversazione. Le bestie diventano umane. Per una notte. Il contrario di quello che avviene per il resto dell'anno.
Mentre la gente forma un bel crocchio a prudente distanza dalle fiamme, si crea un atmosfera magnetica, spettrale. Arrivano la strega e gli inquisitori. Si apre un equo processo in tre fasi: tortura, confessione e rogo. Gente incappucciata si dispone attorno alla pira. Le fiamme cominciano ad avvolgere tutto e assomigliano a colpi di coda di una balena che brucia nella notte.
Mentre la faccia rivolta verso le fiamme mi diventa rovente, la schiena rimane assiderata, immobile, buia. Una strana sensazione. Come il fuoco del santo e il rogo della strega. La medaglia e il suo rovescio.
(27.01.13)
Chiara e la matematica
La mattina accompagno Chiaretta a scuola e nel breve tragitto provo a recuperare un dialogo che oramai è già ridotto al lumicino.
Procediamo a piedi penetrando la nebbia che sembra ovatta. Mano nella mano. Lei una farfallina puntigliosa di quasi sette anni. Io con la mia barba perenne ed il suo zaino sulla spalla che pesa come un sacchetto di cemento.
- Chiaretta hai fatto i compiti ieri? - tento di attaccare bottone con tono dolce.
- Si Papà, ho fatto matematica. La matematica tu non lo sai, vero?
Rallento con la sensazione che un rivolo di sudore mi stia solcando la fronte nonostante la temperatura sia intorno ai 5 gradi.
Procediamo a piedi penetrando la nebbia che sembra ovatta. Mano nella mano. Lei una farfallina puntigliosa di quasi sette anni. Io con la mia barba perenne ed il suo zaino sulla spalla che pesa come un sacchetto di cemento.
- Chiaretta hai fatto i compiti ieri? - tento di attaccare bottone con tono dolce.
- Si Papà, ho fatto matematica. La matematica tu non lo sai, vero?
Rallento con la sensazione che un rivolo di sudore mi stia solcando la fronte nonostante la temperatura sia intorno ai 5 gradi.
- Amore scusa, perchè dici che Papà non sa la matematica?
- Me l'ha detto mamma - replica con tono serafico e crudele.
Mi giro un attimo verso i balconi di casa mezzi inghiottiti dalla nebbia e dentro mi arrovello e penso: "ma tu vedi a questa come mi sputtana".
- Amore ma non è vero! - cerco di farle cambiare opinione leggermente infastidito.
- Papà, che vuoi dire? Che mamma dice bugie?
- No amore, non dico questo, - mi giustifico mentre le gocce di sudore si moltiplicano sulla fronte - è solo che mamma forse voleva dire che lei... dopotutto... vedi...
Mentre mi arrampico sugli specchi e faccio mentalmente il conto alla rovescia dei passi che ancora ci dividono dall'entrata della scuola, Chiaretta mi fissa severa.
Alla fine getto la spugna: - Va bè amore Papà la matematica non lo sa, perciò tu imparala bene cosi poi gliela insegni. -
Lei soddisfatta cambia espressione. Arriviamo dinanzi all'entrata. Non faccio in tempo a metterle sulle spalle lo zaino da rocciatore, che parte a razzo. A metà gradinata proprio dinanzi all'uscio si gira e mi regala un sorriso orfano di tutti i denti davanti che sembra bucare la nebbia come un raggio di sole.
(19.01.13)
(19.01.13)
Un uomo fuor terra
Lo ammetto vivo in un mondo tutto mio, sono un pesce fuor d'acqua, anzi un uomo fuor terra. Mentre infervora la bufera giudiziaria locale la mia condizione di marziano si accentua a dismisura. Anche nel trambusto rimango defilato, immerso nelle mie cose. Cerco di rimediare quando e come posso, goffamente, sforzandomi di captare anche i più minuscoli dettagli dagli animati dibattiti dei colleghi. Alcuni espertissimi, con una tale sicurezza di argomenti che viene il sospetto che abbiano svolto personalmente le indagini. In queste conversazioni mi limito ad alzare il sopracciglio, ad annuire con sussiego, a socchiudere gli occhi dissimulando massima concentrazione, a minimizzare. Insomma bleffo. Ma allo stesso tempo tento di capire, soprattutto per non ammettere a me stesso di essere sempre quello che vive sulle nuvole. Davanti o dentro ai bar, poi, immancabilmente trovo le due fazioni. Giustizialisti e garantisti. Guelfi e ghibellini. Puntualmente non solo non mi appassiono, ma alla prima utile mi dileguo richiamato dall'urgenza di quell'atto da scrivere, da quel libro che ho lasciato aperto, o da quel racconto che è rimasto sospeso e mi aspetta quasi girandosi i pollici. L'altro ieri mattina però, mentre ero in attesa per una notifica, nell'unico ufficio in Italia dove chi raccoglie l'atto allo sportello lo legge con più attenzione del giudice, non ho resistito, e ho preso Il Sannio che stava sdraiato sul tavolo. Mi sono seduto, ho dato un'occhiata alla magnolia maestosa al di là della finestra, e mi sono detto: "Ce la posso fare, adesso con calma, mentre il "giudice della notifica" scioglie le varie riserve, mi leggo tutto con attenzione e cerco di capire bene che cosa hanno combinato al Comune". A pagina 2 c'era l'imbarazzo della scelta. Ho cominciato con gli stralci dell'ordinanza del Gip Cusani. "Cazzo," mi sono detto "Flavietto c'è andato pesante!". Seguendo le parole che assomigliavano a colpi di mannaia, ad un certo punto, mi sono imbattuto in una piccola perla: "...i dirigenti e i tecnici vengono fuori come vasi di coccio di manzoniana memoria, stretti da una morsa costituita da una parte dall'arroganza dei politici disonesti e dall'altra dalle blandizie e dai favori offerti da imprenditori spregiudicati...". Ho posato il giornale, e mentre lo sguardo si perdeva tra le foglie della magnolia che mi stava di fronte, ho pensato a Manzoni. A Don Abbondio, ai Promessi sposi ma anche alla povera Colonna infame ed all'affermazione, meno famosa ma lo stesso di manzoniana memoria, che una "cattiva istituzione non s'applica da sé". Questa frase dovrebbe stare nelle aule di giustizia anziché quella più famosa "la legge è uguale per tutti". Il Gip ha ceduto alla suggestione letteraria. Anzi. E' la suggestione letteraria che è fiorita da sèE. Nel deserto. Anzi, nella bufera. Quasi a dire che letteratura è la dimostrazione che la vita sola, per quanto inenarrabile, non basta.
(12.01.13)
L'inizio dell'anno
Era seduto alla scrivania cullato da una musica che assomigliava agli echi dei fuochi dell'ultimo dell'anno. Pensò all'inverno, alla neve, alla coltre bianca che sarebbe arrivata a ricoprire ogni cosa, a portare il silenzio.
C'è un momento in cui si fanno i bilanci. Immancabile. La mattina aveva camminato per strada osservando i resti dei fuochi, quelli che più di ogni cosa assomigliano alla malinconia. Guardando quei miseri avanzi aveva pensato alla vita che lascia a terra i resti passato.
Ogni storia vissuta è un fuoco che brilla, e quando finisce dissemina scarti per strada.
In queste idee faceva illanguidire il suo bilancio del natale passato, anzi svanito troppo presto, come al solito. Come certi amori che si dissolvono ancor prima di nascere e si cibano di attesa, di quel tempo eterno fatto di acque che si agitano sotto pelle.
Stava ancora seduto quando la musica finì. Fuori la finestra i tetti muti sembravano ricongiungersi al silenzio della stanza. Posò gli occhiali sullo scrittoio. Pensò al bilancio degli altri. Quelli che stavano già immersi nel 2013 e chi, come lui, indugiava ancora un pò. Osservava ancora resti. I pezzi di vissuto che lo salutavano come figli in partenza.
(06.01.13)
Due pastorelle principesse
Il giorno dell'Immacolata c'erano le nuvole sopra il Taburno gonfie come rospi. Il grigio del cielo era una pennellata svogliata. La temperatura bassa. Dalla valle telesina al fortore ho immaginato fuochi allegri e crepitanti in tutti i camini. Il giorno ideale per riesumare albero e presepe. Sono sceso in cantina e loro erano lì, sullo scaffale più alto. Due sarcofaghi imballati, anzi tre: albero, presepe, luci e palline. L'albero è un veterano. Ogni anno lo trovo sempre più stempiato e spettinato. La scatola delle luci e delle palline fa solo ingombro. Puntualmente le luci si fulminano e le palline sono fuori moda. Finalmente il presepe. L'unico paesaggio che ferma il tempo. Anzi lo riavvolge come un gambero. Mi fa rivedere i fotogrammi dell'infanzia. Ricordo persino il volto dei pastori di quando ero piccolo. Il bottaio, il panettiere, il pescatore, il ciabattino, la donna con l'arcolaio. Poi c'erano le pecore. Un gregge vero. Qualcuna non si reggeva bene in piedi e dovevamo puntellarla vicino un albero, un sughero. Uno specchietto che mamma aveva sacrificato, era il lago. Carta roccia, carta stellata, carta argentata. Gesù bambino era sempre quello. Un pacioccone. Il bambinello di plastica che ho posato ogni anno nella greppia, non so dove sia finito, ma lo riconoscerei tra mille.
Il presepe è tradizione, anzi è famiglia. Ma soprattutto, per Chiara e Valentina, è la casa dei giochi. Quando abbiamo tirato fuori il presepe dalla scatola, le due furbe già si dividevano case, territori, pastori e animali. Poco dopo, nel muschio, il gruppo di pastori di Chiara stava schierato ed osservava dall'altro capo del presepe il gruppo di Valentina, quasi fossero Montecchi e Capuleti.
- Papà, uffà, però ci mancano due pastorelle coi capelli lunghi e biondi - esclama Valentina sconsolata.
- Due pastorelle coi capelli lunghi?
- Si, le principesse!
- Ma non esistono le pastorelle principesse! - obietto.
- Ma che dici? Esistono. Vedi? Una la dobbiamo mettere nella casa in alto, accanto la fontana, e l'altra nella casa in fondo, quella con il balcone. E poi ci servono le pentoline e i piatti per cucinare. E anche due cavalli bianchi. Li mettiamo nelle grotta. Così se arriva il principe possono andare a prendere le principesse e fare una passeggiata – mi spiega Chiara con pazienza.
Butto uno sguardo nella grotta e rimango perplesso: Gesù bambino sta già comodamente adagiato nella mangiatoia e sembra sbadigliare.
- Ma insomma Gesù bambino non è ancora nato, non lo potete mettere lì! – le rimprovero, cercando di richiamarle al disciplinare.
Valentina mi guarda imbronciata curvando verso il basso gli angoli della bocca, e Chiara mi attacca senza mezze misure.
- Papà, no, mi dispiace, ma Gesù bambino non te lo possiamo proprio dare. E' nostro figlio. Cioè è il figlio del re, ed è il fratellino delle principesse.
- Va bé, ci rinuncio – replico rassegnato – piuttosto perché San Giuseppe l'avete messo vicino alla bottega, accanto la gradinata?
- Papà, ma non capisci proprio niente, - mi corregge Valentina - quello non è San Giuseppe, è nonno che sta andando a vendere il pesce.-
Alzo le sopracciglia e penso, magari, con quello che costa il pesce.
- Papà, dai, allora ci compri le pastorelle principesse coi capelli lunghi? - insiste Chiaretta.
- Non se ne parla proprio – replico con fermezza – il presepe non è un gioco!
Mi guardano entrambe noncuranti e si rituffano nelle loro ludico passatempo fatto di pastori, pecore e muschio. Prima di uscire dal salone mi fermo ancora un attimo a guardarle intente sul presepe. Esco, sorrido, chiudo la porta, mentre la mia mente già percorre tutti i possibili negozi: due pastorelle principesse.
(23.12.12)
Valentina è celiaca
Valentina è celiaca e mangia senza glutine. Anzi deve mangiare senza glutine. Ha un intestino un po' troppo selettivo. Fragile e guardingo. Fatto di villi che somigliano a pezzi di vetro.
Però lei è Valentina. Dio al momento di assegnarle il carattere ha detto: “lasciatemi fare che qua ci divertiamo”.
Così, come il glutine le ribalta lo stomaco, Valentina capovolge ogni situazione.
Se i suoi compagni di asilo si avvicinano sventolandole in faccia leccornie di farina e biscotti, infierendo con crudele innocenza, dicendole: " Tu questo non lo puoi mangiare! E' con il glutine! - , lei, non si perde d'animo, anzi s' mett 'a copp' , ribalta la partita, tira fuori dallo zaino la merendina aglutinata ed agitandola nell'aria, esclama soddisfatta: – E voi non vi potete mangiare questa! E senza glutine! -
(10.12.12)
Però lei è Valentina. Dio al momento di assegnarle il carattere ha detto: “lasciatemi fare che qua ci divertiamo”.
Così, come il glutine le ribalta lo stomaco, Valentina capovolge ogni situazione.
Se i suoi compagni di asilo si avvicinano sventolandole in faccia leccornie di farina e biscotti, infierendo con crudele innocenza, dicendole: " Tu questo non lo puoi mangiare! E' con il glutine! - , lei, non si perde d'animo, anzi s' mett 'a copp' , ribalta la partita, tira fuori dallo zaino la merendina aglutinata ed agitandola nell'aria, esclama soddisfatta: – E voi non vi potete mangiare questa! E senza glutine! -
(10.12.12)
Palle di cannone e torroni
Certe volte le
giornate sono grige come palle di cannone, e magari fossero quelle
dell'ottocento che stavano nelle bocche di fuoco dei vascelli. Quelle certe volte uscivano e spezzavano gli alberi maestri. Queste
palle qui invece giacciono pachidermiche. Sopravvivono tra due fiumi. Hanno il sapore umido della nebbia e dormono peggio della dormiente
che almeno si svegliasse qualche volta, invece sta lì, di profilo, negandoci il suo volto da una vita,
circondando l'esistenza sdraiata in un letto. Come domenica lungo il
corso stavano sdraiati i torroni sotto le capanne, ma quelli almeno
sorridono. Così, mentre mi arrivavano i soliti echi rosicatori: "a Benevento stamm' 'nguaiat e chist pensano u' torrone", come un
bambino annegavo lo sguardo in tutte quelle teglie dove nuotavano
mandorle, arachidi, nocciole, croccanti luccicanti d'oro, e pezzi di
torroni naufragati come scogli.
(04.12.12)
Revolver alla tempia
Un paio di
domande di Silvana riassumono bene il suo essere bastian contraria
per eccellenza.
Sono domande che non lasciano scampo. Qualunque
risposta dia comunque mi beccherò un rimprovero.
Dopo aver cucinato qualcosa puntualmente mi chiede:
- Com'è?
- Buono!
- Non è vero fa schifo!
Dopo aver cucinato qualcosa puntualmente mi chiede:
- Com'è?
- Buono!
- Non è vero fa schifo!
Se rispondessi
diversamente, l'alternativa sarebbe:
- Com'è?
- Insomma...
- Insomma che? E' ottimo! Se non ti piace lascia stare!
Idem per i pareri su quello che indossa la mattina; non ho possibilità di salvezza:
- Com'è?
- Insomma...
- Insomma che? E' ottimo! Se non ti piace lascia stare!
Idem per i pareri su quello che indossa la mattina; non ho possibilità di salvezza:
- Come
sto?
- Bene.
- Ma che dici, rispondi giusto per levarmi di torno, ma non lo vedi che non va! Mi devo assolutamente comprare qualcosa, non mi è rimasto più niente!
- Ma che dici, rispondi giusto per levarmi di torno, ma non lo vedi che non va! Mi devo assolutamente comprare qualcosa, non mi è rimasto più niente!
Dinanzi
allo stesso abito, l'alternativa sarebbe:
- Come sto?
- Come sto?
- Forse
il colore non mi convince...
- E
perché scusa? Che c'è che non va? Lascia stare che non capisci
niente, e io che perdo pure tempo a chiederti un
consiglio.
Inutile dire che di fronte alle domande da revolver alla tempia di questa bruna sono anni che mi immolo... immancabilmente.
Inutile dire che di fronte alle domande da revolver alla tempia di questa bruna sono anni che mi immolo... immancabilmente.
(02.12.12)
Udienza a Vitulano
Come ti riconosco
città mia. Quando d'inverno cali la nebbia come un drappo da teatro
e chiudi il sipario. Stratifichi nubi opache. Stamattina Vitulano
sembrava la val padana. Il ponte della fondo valle era come sospeso
sulle nuvole. Il fiume sonnecchiava e le cime rugginose dei faggi
sbucavano da un placido prato di ovatta. Lungo la strada, appena
oltre la cunette, si intravedevano lembi di zolle
fumosi. Più dentro era solo nebbia. Quasi una cortina bianca.
Impenetrabile. Ai margini della via spuntavano scheletri di ulivi e tralicci di viti con foglie giallo cadmio, rame,
arancio.
Quando sono arrivato c'era un sole timido. Il paese stava
seduto ai piedi dei monti. Si vedevano il Camposauro e i cipressi
sparsi lungo le pareti della montagna. La nebbia osservata dalla
parte più alta del paese sembrava un immenso cratere di fumarole.
Sono
entrato nell'ufficio lasciando davanti l'entrata due cani anziani
sdraiati sull'asfalto. Dentro invece c'erano quattro gatti, compreso
avvocati, giudice e cancelliere.
Quasi
tutti rinvii. L'udienza, a dispetto della nebbia, si è diradata in
un soffio.
(27.11.12)
Sotto sotto
Mi faccio dare il
solito strappo. In un mio incubo ricorrente gli amici mi aspettano
tutti sotto casa con il conto della benzina. L'inverno mi
saluta fuori dal finestrino. Anche stasera ho fatto tardi. Mezzo giro di chiave nella toppa e finalmente sono a casa. - Sono andata ai
colloqui delle bimbe.
- Cazzo! Me ne ero dimenticato! Come è
andata?
- Chiaretta bravissima, competitiva e perfezionista.
- Bene, sarà un'infelice. E la piccola?
- Chiaretta bravissima, competitiva e perfezionista.
- Bene, sarà un'infelice. E la piccola?
- Fa progressi, si vede che è
seguitissima, ha detto la maestra. - Ha ragione, effettivamente visto
i casini che combina noi la inseguiamo in continuazione.
- Scemo. Comunque potevi venire anche tu, c'erano tutti gli altri padri, invece come al solito rientri a quest'ora, ma si può sapere che hai fatto?
- Scemo. Comunque potevi venire anche tu, c'erano tutti gli altri padri, invece come al solito rientri a quest'ora, ma si può sapere che hai fatto?
- E
che ho fatto secondo te? Avevo un atto in scadenza.
-
Ma è possibile che ti riduci sempre sotto sotto?
Mi
viene da ridere e penso: "ancora non te ne sei accorta?". Con i compiti arrivavo sotto sotto, con le interrogazioni
idem, con gli esami se non arrivavo sotto sotto e chi si
metteva sui libri, con il matrimonio pure sono arrivato sotto
sotto, anzi sottissimo. Vuoi vedere che da
avvocato, non arrivavo sotto sotto anche con gli atti?
Lo
stile di vita è sacro, non scherziamo, io devo arrivare sul filo dei
secondi, praticamente scannato, perché altrimenti se mi
organizzo prima, mi sembra che non sono più io, e che tutto il tempo
anticipato sia tempo sprecato.
(25.11.12)
Valentina ha fatto guai
- Valentina ha
fatto guai! come al solito.
- E che ha combinato stavolta?
- Fattelo dire da
lei, vediamo un pò che ti dice.
- Ma tu vedi un pò se a quattro anni una bambina può essere così, e pensare che io a quattro anni dormivo all'erta, e se pure tentavo un accenno di qualcosa mia madre mi fulminava, sentiamo Valentì che hai combinato??? Valentì? Valentina, mi senti? Mamma dice che hai combinato guai, sentiamo? Valentina? Valentì?
- Ma tu vedi un pò se a quattro anni una bambina può essere così, e pensare che io a quattro anni dormivo all'erta, e se pure tentavo un accenno di qualcosa mia madre mi fulminava, sentiamo Valentì che hai combinato??? Valentì? Valentina, mi senti? Mamma dice che hai combinato guai, sentiamo? Valentina? Valentì?
Valentina seduta a tavola, mastica il boccone, fissa la bottiglia dell'acqua davanti a sé, con
lo sguardo quasi assente, assorto, praticamente sorda a tutto ciò
che gli sta attorno. Le gambe le penzolano dalla sedia.
Mentre io mi
sgolo con la mia domanda, lei imperterrita continua a masticare senza
degnarci di uno sguardo. Ogni tanto, distrattamente, si volta verso
la tartarughina che annaspa nell'acqua all'angolo della cucina, e poi
ritorna a masticare e fissare la bottiglia.
- Valentina ma insomma rispondi? Che hai combinato si può sapere? Adesso basta guarda che sono botte!
- Papà, non lo sai che quando si mangia non si parla? - mi zittisce Valentina con fare serio.
- Valentina ma insomma rispondi? Che hai combinato si può sapere? Adesso basta guarda che sono botte!
- Papà, non lo sai che quando si mangia non si parla? - mi zittisce Valentina con fare serio.
Rimango attonito.
Quasi stordito. Guardo Silvana. Mi viene da ridere. Mi
trattengo.
- Hai ragione Valentina, allora finisci di mangiare presto e dopo facciamo i conti - chiudo con una fase di ripiego.
- Hai ragione Valentina, allora finisci di mangiare presto e dopo facciamo i conti - chiudo con una fase di ripiego.
(20.11.12)
Il ponte sul fiume Calore
Cammino sul
ponte sul fiume Calore, quello che sta nella divina commedia e guai a
non saperlo. Questo ponte è mio, adesso. Mentre cammino e spunta la
nebbia come la marea, con i marciapiedi d'asfalto, i lampioni di
cera, e le catene con i lucchetti degli innamorati avvinghiati sul
parapetto.
Il mio ponte, che con tutto il rispetto anche per le
alluvioni, io ci ho pescato dentro, più in là, alle
spalle della Madonna delle Grazie, in un fiume di fine estate placido
e intorpidito dalle draghe al lavoro.
Io e Emilio ci tiravamo fuori
certe carpe panciute. Una volta un signore ne prese una di due
chili dall'altra parte del fiume. La teneva in braccio e ci sfotteva alluccando: - uagliò tè tè, chest è na carpa! - e ce la
mostrava e si agitava, finché ad un tratto quella bestia gli scivolò
dalle braccia e con un balzo sparì di nuovo nel fiume.
- Ue
pepe! - gli gridammo all'unisono io e Emilio dall'altra parte.
Quando passo sul ponte immortalato da Dante sorrido e mi ricordo di
quando ci pescavo le carpe.
(18.11.12)
(18.11.12)
Bolla d'aria
Da
poche ore si è spento questo cielo. Sono uscito fuori al balcone,
quello della dormiente, e come al solito mi sono guardato indietro,
immergendomi in posti già visti e tra le persone già conosciute. Il
cielo fino a poche ore fa era un ombrello grigio che dal mio balcone
stendeva le braccia sino alla cime dei monti della valle vitulanese. Ho immaginato il convento di San Michele baciato da questo
crepuscolo e il suo altare, scavato nella pancia della montagna. Per
visitarlo, io e Peppe, tanti anni fa, scalammo mezzo monte e ci
scorticammo nei rovi. Più a sud, scendendo dai piedi della
dormiente verso la valle caudina, si è aperta una lunga
feritoia di luce. Come se il cielo cupo, dilagato in questa domenica
avesse lasciato una bolla d'aria facendo intravedere già il
lunedì. Un eco d'alba. Quella che si lascia dietro ogni cosa e riporta alle cose nuove del giorno.
(04.11.12)
Ho rivisto il duomo
Dal mio studio ho divorato a
piedi il corso, volevo tirare dritto verso corso Dante, ed
anticiparmi per un appuntamento, invece mi sono fermato, quasi
sull'attenti, dinanzi al duomo che sembrava un ventaglio d'avorio. Ho seguito il profilo del campanile e le sue pietre che
formavano una scacchiera di perla. Sulla facciata il marmo
era un'altalena di sfumature e tra le arcate, più
innanzi alle formelle della janua maior, ho notato la cornice della
porta principale fatta di arabeschi. Mi sono ricordato di Granada, Siviglia, Cordoba, Cadiz, Gibilterra e di quel giro andaluso
fatto con una vecchia auto tra frammenti barocchi, jamon iberico e
coppe di vino rosso. Sulle sei arcate più sopra tutto era dorato
dalla luce ocra dei lampioni. Gli stessi riflessi di quando da
piccolo un pomeriggio di inverno ci entrai con mamma. Quasi piangemmo
io e mio fratello per il buio e un organo che zufolava tetro. Mamma
ci guardò, e onde evitare il peggio, ci disse: -va beh usciamo, tanto con voi non si può fare niente - Poi, fuori dalla chiesa ci comprò
un pezzo di pizza e passammo in un attimo dalle lacrime al
sorriso. Ho guardato l'orologio ed ho alzato lo sguardo verso
corso Dante e la basilica della Madonna della Grazie che sembrava
sorridere in penombra. Ho sospirato e mi sono detto: -ho fatto
tardi - Per fortuna.
(07.11.12)
La cazziata alla rovescia
Sono rientrato incrociando le mie figlie e mia
moglie che uscivano. Una sincronia perfetta. La domenica mi sorride.
Mi metto a cazzeggiare. Navigo, leggo, tv, dvd, hifi. Certe volte
scegliere è drammatico. L'asino di Buridano ne sa qualcosa. Comunque
tutto quello che verrà sarà un poltrire fantastico. Mi sfodero al
volo i mocassini. Sento il legno baciarmi le piante dei piedi.
Uno sguardo fugace alla cucina e penso con te facciamo i conti dopo.
Tiro dritto in bagno. Domani ho un confronto con un giudice.
Ovviamente ad armi impari. Chissà se pure i giudici vanno in bagno.
Io di sicuro ce li mando spesso. Sorrido. Faccio retromarcia verso il
salone ed punto il mio sonnacchioso divano che comincia a dilatare i
cuscini di cotone grezzo. Con la coda dell'occhio sbircio la stanza
delle bimbe. Mi fermo. Deglutisco. La piana di Waterloo dopo la
battaglia a confronto era un tappeto di margherite. Va beh e che
cazzo! Mi volevo consegnare all'ozio e invece... Fa niente. Devo
sistemare la stanza. O meglio bonificarla. Mi dedico con lavoro
certosino. Raccolgo tutto, ma proprio tutto e penso ma come fanno
venti ditine a spargere ventimila oggetti. Bah, non perdiamoci
d'animo. Oramai ci siamo. Certo mi sono giocato mezza domenica. Ma
quando tornano mi sentono. La regola è regola. Quando si comincia un
gioco si mette a posto prima l'altro. Come mi diceva mamma, solo che
lei mi dava certi ceffoni e io... beh lasciamo stare, dopotutto
anch'io so il fatto mio e quando rientrano mi sentono... eccole... le sento
dal pianerottolo. Urla, strepiti, due erinni che mi sfrecciano sotto
il naso.
- Ehi ferme qui, come è andata? Vi siete divertite? Che
avete fatto? Aspetta e spera. Ascoltatemi bene, stavolta la stanza ci ha
pensato papà ma...
- Papà!!!! E che hai combinato? Hai messo tutte
le cose della cucina al posto sbagliato! - mi zittisce la grande, e la piccola giù con il carico da undici: -Sì papà che
hai fatto? La torta e la teglia con i wurstel andavano nel forno! E
le bambole pinypon? Papa? Dove le hai messe? E le principesse? E i
librottini andavano nel cassetto, non sulla libreria, sulla libreria
ci mettiamo gli astucci e le scatole del salone di bellezza! Papà! Le winks vanno nella scatola verde, mentre tu ci hai messo le barbie
che vanno in quello fucsia! Papa! Ma insomma!
E così in quel
crescendo di rimproveri e cazziate, cerco di zittirle: -Basta!
Silenzio! La prossima volta vi faccio vedere! Vi butto tutto! Ci sono
i bambini poveri che se lo sognano quello che avete voi! Dovete avere
rispetto per le vostre cose! -
Insomma goffaggini di padre, in
definitiva mi arrabatto e sotto sotto mi viene da ridere pensando a
mia madre e a mio padre che addirittura sfoderava la cinta. Così
incasso questa cazziata alla rovescia ed arretro piano piano, mi
ritiro, quantomeno con fare autorevole, cercando di salvare la
faccia. Dal corridoio sbircio la caprese appollaiata sul tavolo della
cucina e già mi rinfranco, guardo l'orologio, sospiro, allungo lo
sguardo sul divano tradito e penso ma tu vedi un pò se mi facevo i
cazzi miei. Meno male c'è il lavoro, domani si ricomincia.
(21.10.12)
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